Secondo i numeri dell’Osservatorio sul monitoraggio dei flussi pensionistici Inps, il sistema previdenziale pubblico italiano è in cambiamento. I risultati dell’analisi, che ha ad oggetto i trattamenti pensionistici erogati nel 2024 e nel primo semestre del 2025, offrono un’analisi dettagliata dell’evoluzione del sistema.
PENSIONE DI VECCHIAIA, LA PIÙ RICHIESTA
Il trattamento pensionistico più diffuso in Italia è la pensione di vecchiaia che si conferma quella più utilizzata nel 2024. Nonostante ci siano molteplici canali di accesso alla pensione, l’uscita a 67 anni con almeno 20 anni di contributi continua ad essere la modalità più gettonata tra i lavoratori italiani. In particolare, lo scorso anno sono stati attivati 271.527 nuovi assegni Inps di vecchiaia. Nei primi sei mesi del 2025 i dati, seppur lievemente in calo, hanno raggiunto 117.901 nuovi trattamenti. Numeri che confermano che il percorso standard per andare in pensione è quello più utilizzato, nonostante ci siano opzioni più flessibili.
AUMENTO AUTOMATICO DEI REQUISITI PENSIONISTICI
In prima istanza Il governo Meloni sembra intenzionato a porre un freno all’aumento automatico dei requisiti pensionistici che sarebbe previsto dal 2027. Questo meccanismo, introdotto dalla riforma Fornero, lega l’età pensionabile e i requisiti contributivi alla speranza di vita della popolazione: più la vita media cresce, più aumentano i requisiti necessari per accedere alla pensione. Secondo la normativa attuale, il 2027 vedrebbe l’introduzione di 3 mesi in più di età pensionabile e contributi richiesti per le pensioni anticipate. Il governo intende congelare questo incremento.
QUOTA 41 FLESSIBILE, LA PROPOSTA
Si è fatta strada un’ipotesi che possa accontentare molti, ovvero: Quota 41 flessibile. In realtà, più che di una riforma sarebbe il caso di parlare di un’aggiunta all’attuale sistema, non molto diverso da quanto accaduto già con Quota 103, Opzione Donna o Ape Sociale.
Secondo tale progetto, la Quota 41 flessibile partirebbe dal 2026, ma i lavoratori che vorranno aderirvi dovranno aver maturato i requisiti entro il 31 dicembre di quest’anno. Saranno necessari 41 anni contributivi, in primis, e poi aver compiuto i 62 anni di età. Dovrebbe esserci una penalizzazione sull’assegno di coloro che decideranno di uscire dal lavoro a 62 anni .
FLESSIBILITÀ ANCHE PER I RETRIBUTIVI E I MISTI
Al cuore della discussione c’è la volontà di aprire la flessibilità anche a chi ha iniziato a versare contributi prima del 1996. Flessibilità propria dei contributivi puri con uscita prevista a 64 anni. L’uscita a 64 anni non è però un regalo, ma significa accettare il ricalcolo integralmente contributivo e superare una soglia piuttosto alta, pari a tre volte l’assegno sociale. La cifra cambierà nel tempo: salirà a 3,2 dal 2030, con riduzioni a 2,8 e 2,6 volte per le madri con uno o più figli. Per coloro che non arrivassero a tali importi entrerebbe in gioco il Tfr. Invece di riceverlo in un’unica soluzione, il montante verrebbe trasformato in rendita vitalizia da sommare alla pensione. Il Ministro del Lavoro Elvira Calderone sembra prediligere, invece, l’alternativa di usare il Tfr per l’adesione ai fondi pensione, piuttosto che come strumento per l’uscita anticipata.
TAGLI SULLE RIVALUTAZIONI, GLI EFFETTI NEGATIVI
Resta, poi, in attesa di sentenze favorevoli, il problema del recupero dell’inflazione dei trattamenti pensionistici. Le pensioni in Italia hanno perso in 10 anni ben 9.600 euro a causa dei tagli e blocchi, anche parziali, sulle rivalutazioni delle somme all’inflazione. La conseguenza per i cittadini è l’erosione del loro potere d’acquisto. I dati i sono frutto di un’analisi che è stata eseguita dalla Uil pensionati facendo riferimento all’arco temporale compreso tra il 2014 e il 2024.
L’EROSIONE DELLE PENSIONI IN 10 ANNI
Così come riportato nell’analisi di Uil pensionati, l’assegno pensionistico, che nel 2014 era pari a 4-5 volte il valore minimo (2.256 euro lordi mensili), avrebbe dovuto raggiungere nel 2024 la cifra di 2.684 euro lordi se indicizzato al 100 per cento al valore dell’inflazione. Così non è stato, visto che i blocchi della perequazione hanno fatto fermare la cifra a 2.615,40 euro lordi. La differenza, su base annua, è di 888,61 euro, con una perdita complessiva in 10 anni di 2.067,48 euro.
Le cifre indicate subiscono evidenti differenze al variare dell’importo delle pensioni. Chi, per esempio, nel 2014 percepiva 3.500 euro lordi subisce nel 2024 un alleggerimento di 4.136,86 euro su base annua (2024) e una perdita totale di 9.619,74 euro nel decennio.
LA POSSIBILE PEREQUAZIONE NEL 2026
Il ministero dell’Economia sta ricalcolando i conti previdenziali in vista della legge di Bilancio 2026. Secondo i tecnici di via XX Settembre, la rivalutazione automatica degli assegni comporterebbe un esborso di circa 5 miliardi di euro lordi nel 2026.
Il calcolo poggia sull’inflazione acquisita per il 2025, stimata all’1,7 per cento. Con una spesa complessiva per pensioni di circa 355 miliardi, un adeguamento lineare dell’1,7 per cento avrebbe portato il conto oltre i 6 miliardi.
La scelta di applicare percentuali diverse a seconda delle fasce di reddito (100 per cento fino a 4 volte il minimo, 90 per cento fra 4 e 5 volte, 75 per cento oltre) come avvenuto già in passato, consentirebbe, almeno nella teoria, di contenere l’onere attorno ai 5 miliardi.
Claudio Testuzza